Home » La mostra digitale » Mario Finzi
Mario Finzi
Geniale musicista e compositore bolognese, in carriera per diventare uno dei più giovani magistrati d’Italia. Resistente del Movimento Giustizia e Libertà, procurava assistenza e carte di identità false agli ebrei in pericolo. Scoperto, fu arrestato e deportato nel campo di Auschwitz, dove morì.
Ognuno di noi ha l’illusione di vivere di una sola vita, ma in realtà vive tante vite quante sono le persone con le quali viene in rapporto. Ed ogni nostro rapporto, che non sia del tutto superficiale (e fra le persone dotate di intelligenza e di sensibilità non esistono rapporti superficiali) lascia qualche cosa di sé nello spirito dell’altro e fa sì che la vita di questo diventa vita nostra.
Così, Mario Finzi esprime – in una lettera all’amico Fabio Fano del 9 ottobre 1939 – la sua idea sul valore delle relazioni umane.
Mario Finzi era un grande musicista, altamente dotato, studente precoce e giovanissimo pianista. Arrestato mentre correva in aiuto di un piccolo profugo ebreo, morì di stenti nel campo di Auschwitz.
Mario Finzi nasce a Bologna il 15 luglio 1913. È un brillante studente liceale, ma la sua passione è il pianoforte, nel quale si diploma a soli 17 anni. Premiato dal Ministero dell’Educazione Nazionale, si esibisce da adolescente in vari concerti.
Poco più che sedicenne, si iscrive al corso di giurisprudenza, dividendo il suo impegno tra esami universitari, studio del pianoforte, concerti e apprendimento del tedesco da autodidatta.
Quattro giorni prima di compiere 20 anni, si laurea a pieni voti con lode, accontentando il padre che preferisce per lui una carriera sicura piuttosto che quella di artista. Nel 1934, trova lavoro presso un importante studio legale di Milano.
Superato l’esame da procuratore legale, nel 1937, Mario Finzi fa il concorso da Magistrato, ma, le leggi antiebraiche del fascismo stroncano la sua carriera.
Ora la sua famiglia può contare soltanto sulla pensione dell’ormai anziano e severo professor Amerigo Finzi, papà di Mario. L’incertezza economica, l’umiliazione, il disorientamento sono le stesse per tutti gli ebrei d’Italia.
Il governo proibisce anche l’attività agli autori di libri, opere d’arte, e concerti. Mario può solo impartire lezioni private nella sua abitazione, con le quali raggranella qualche soldo.
La legge esclude gli ebrei anche dalle scuole pubbliche sia come insegnanti, sia come alunni. Per non lasciare per strada i propri bambini e adolescenti, le comunità ebraiche organizzano, in fretta e furia, piccole scuole, assoldando come insegnanti proprio coloro che avevano perso il lavoro: insegnanti validissimi di scuole statali e perfino universitari.
Anche Mario Finzi chiede e ottiene un posto di insegnante. Così lo ricorda il suo alunno Giancarlo Sacerdoti:
“Mario Finzi fu un altro dei nostri insegnanti. Fu un uomo singolare, uno che pensava sempre al prossimo, un comunista dal volto umano, un idealista… Per lui non c’erano uomini cattivi incorreggibili: se un uomo era cattivo ciò era dovuto ad una causa che stava fuori di lui, eliminata la quale, tornava ad essere buono…”
In una lettera del 3 marzo 1940 a Fano, depresso, per le leggi antiebraiche, Mario riflette sulla funzione consolatoria dell’arte:
“…Caro Fabio, sono d’accordo con te che una società ci è necessaria per vivere una vita spirituale piena; ma chi più di noi…può considerarsi indipendente dalle condizioni esteriori, se la nostra è un’attività puramente spirituale? Suona e getta, nell’animo di chi ti ascolta, il germe dell’amore dell’arte; insegna e comunica il tuo entusiasmo al tuo scolaro: tu avrai forse, inconsapevolmente anche, contribuito a migliorarlo, e avrai agito così con le tue armi anche nella società, e chi può dire quanto sarà il bene che potrai fare?”.
La musica rimane il suo rifugio, un modello di raggiunta armonia cui anelano tutte le sue energie.
Alla fine del 1940 è Mario stesso a proporsi come collaboratore dell’ente di soccorso in favore degli ebrei profughi dalla Germania nazista e dai territori occupati, denominato DELASEM (Delegazione Assistenza Emigranti). La DELASEM è un’organizzazione ebraica nata per soccorrere le migliaia di profughi che si trovano in Italia in attesa di un visto di ingresso in paesi terzi, che vagano per le vie cittadine, senza denaro, senza lingua, senza sapere a chi rivolgersi per ottenere vestiario, cibo, alloggio e visti di ingresso in altri Paesi. Un’impresa ciclopica diretta da Lelio Vittorio Valobra con decine di volontari e piccoli efficientissimi comitati in ogni città.
In un appunto manoscritto ritrovato dalla madre, Mario esprime il suo amore per la cultura germanica:
“Devo confessare che attraverso le frequenti relazioni che durante il mio soggiorno milanese prima e poi anche qui ho avuto con tedeschi, sono riuscito a rendermi conto di un fatto piuttosto straordinario, e cioè che nella mia avversione alla Germania di oggi e al suo governo, non c’è solo quel sentimento abbastanza generale di reazione contro i barbari sistemi del razzismo, che è la fonte dell’odio antitedesco non solo degli Ebrei, ma anche di molte persone civili che sentono repulsione verso questo ritorno al Medio Evo; ma c’è anche qualche cosa di più, come il rimpianto di una cara cosa perduta, il dolore del destino della Germania in se stessa, quasi che ci fosse veramente in fondo al mio essere un senso puro, nostalgico, di speranza, un’aspirazione nascosta verso questo grande paese, ed ora questa aspirazione fosse irreparabilmente delusa: è lo stesso sentimento di tutti quei profughi che hanno conservato un disperato amore del loro paese, e che io mi sono accorto, stranamente, di condividere…”
Finzi si impegna allo spasmo per i profughi, tenendo numerosi concerti casalinghi al fine di raccogliere fondi tra i membri della comunità ebraica in favore della commissione bolognese della Delasem.
Nei primi mesi del 1942, un consistente gruppo di ragazzi rimasti senza genitori e in viaggio verso la Palestina si trova bloccato nel territorio annesso all’Italia nei dintorni di Lubiana. Valobra li fa venire in Italia dove, a Nonantola, alla periferia di Modena, la DELASEM prende per loro in affitto Villa Emma. Mario si adopera per quei ragazzini. Valobra ricorda:
“chiesi a Mario, in quei giorni, il perché di quella sua febbre, di quella sua ansia di aiutare, di rendersi prezioso ed insostituibile; il perché, per esempio delle sue lunghe estenuanti gite in bicicletta lungo lo stradone tra Bologna e Nonantola, … come poteva dopo quei 28 chilometri di sole e di polvere, sedersi e parlare – tutto sudato e ansante- con i ragazzi della Villa per ore e ore, e cantare e ballare e suonare per loro su un pianoforte malandato e, nello stesso tempo, interessarsi di brande e di coperte, di permessi speciali, di pratiche da sbrigare, in quel suo modo così caratteristico, con quel suo sorriso aperto e allegro, con quel suo parlare rumoroso, con tutta quella sua contagiosa generosità di parole e di gesti.”
Mario Finzi si avvicina anche al movimento antifascista, in particolare al Partito d’Azione bolognese, dove trova altri intellettuali, artisti, musicisti. Sono tutti arrestati, per una delazione, dalla polizia fascista che cerca di decapitare il movimento. Verranno liberati alla prima caduta del fascismo il 25 luglio 1943.
Dopo l’8 settembre 1943, l’impegno dei membri del Partito d’Azione diventa molto pericoloso. Mario condivide, specialmente con due compagni, l’attività clandestina: Massenzio Masia detto Max e Armando Quadri, ambedue arrestati e fucilati al poligono di tiro di Bologna il 3 settembre 1944.
Mario potrebbe diventare commissario politico di una brigata di Giustizia e Libertà, ma non se la sente di imbracciare un fucile e sceglie la resistenza civile: fabbricare e distribuire documenti falsi per ebrei e altri ricercati, assistere persone in difficoltà, fornire generi di prima necessità ai resistenti. L’attività di partigiano, nonostante i rischi impliciti, gli consentirebbe di portasi in posizioni meno esposte, ma è consapevole che dal suo lavoro dipende la salvezza di troppe persone.
Provvede anche i partigiani, nascosti nei boschi di Castel d’Aiano e di Vergato, di coperte, indumenti, scarpe e medicinali prelevati da Villa Emma rimasta deserta per la fuga clandestina in Svizzera dei ragazzi e dei loro dirigenti. Spesso, la corriera sospende il servizio a causa dei bombardamenti, e lui si fa a piedi 12 chilometri di montagna per portare i soccorsi.
Mario fabbrica documenti falsi in via Oberdan, a Bologna, in una stanza appartata della sartoria ALPI che nasconde, dietro la propria insegna, attività clandestine.
Per sette mesi consecutivi Finzi continua a svolgere la sua missione, nonostante la sua posizione di fuori-legge, doppiamente rischiosa per essere sospettato politico e anche ebreo. Tanto più che il 30 novembre 1943, il governo neofascista della Repubblica di Salò ordina l’arresto di tutti gli ebrei e il loro internamento in uno speciale campo di concentramento italiano, anticamera della deportazione verso Auschwitz e l’annientamento. Da quel giorno, nessuno, adulto o bambino che sia, può circolare impunemente. Il rischio è di essere arrestato e internato.
Dei documenti fabbricati da Finzi si servono anche i dirigenti dell’organizzazione di soccorso ebraico-cristiana di Firenze. Là opera don Leto Casini, incaricato dall’arcivescovo cardinale Elia Dalla Costa di dare una mano ai profughi giunti a piedi attraverso le Alpi dalla vicina Francia. Finzi si reca da don Leto per prelevare le fotografie da apporre ai documenti falsi che riporta poi a Firenze. Il 26 novembre 1943, l’intero comitato di Firenze, cappeggiato dal rabbino Nathan Cassuto, è arrestato per una delazione. Solo Casini si salva.
“Per le carte di identità che dovevano far diventare italiani tanti Polacchi, Russi, Tedeschi, Ungheresi ecc. provvedeva una tipografia clandestina di Bologna. Io mi facevo dare le fotografie formato tessera e le consegnavo ad un giovane ebreo di Bologna il quale faceva la spola, quasi ogni giorno, tra me e la suddetta tipografia…Tutti questi stranieri, in forza di quei cartoncini erano siciliani e calabresi. Peccato non fossimo riusciti a farli parlare i rispettivi dialetti! Purtroppo parlando imprudentemente la loro lingua materna ad alta voce, davano…nell’orecchio e molti, caduti in sospetto, furono arrestati. Il fattorino, veramente eccezionale, a cui ho accennato era Mario Finzi…”.
Il 31 marzo 1944, Mario sta uscendo dalla Casa di cura di Villa Rosa in Via Castiglione 103 a Bologna. Là, un ragazzo ebreo tedesco, Heinrich Fischer, è stato ricoverato, sotto falso nome per un intervento chirurgico. La polizia fascista, avvertita da un delatore, l’aspetta al cancello.
Viene rinchiuso nella prigione di San Giovanni in Monte, poi viene trasferito al campo di concentramento di Fossoli di Carpi.
Qui, rimane fino alla partenza del successivo trasporto diretto al campo di sterminio di Auschwitz, avvenuto il 16 maggio 1944, carico di più di 580 ebrei. Supera la selezione e viene assegnato all’immenso deposito di cose portate da tutta Europa dai disgraziati deportati, mandati, per la loro maggioranza, nelle camere a gas.
Auschwitz comincia ad essere evacuata dai prigionieri già a fine novembre del 1944 quando è chiaro che l’esercito russo liberatore non tarderà a giungere da est. Gli ultimi ad uscire dal campo sono diretti a piedi verso ovest con terribili marce forzate in cui chi rimane indietro viene ucciso inesorabilmente dalle guardie. Tra il 17 e il 18 gennaio 1945 lo svuotamento del campo è concluso.
Solo gli ammalati impossibilitati a camminare sono stati lasciati indietro. I russi liberatori radunano i superstiti dei campi di Auschwitz nell’infermeria del campo principale. Adibiscono ad infermieri i pochi ex prigionieri ancora in forze. Tra questi c’è Eliakim Cordoval, deportato ad Auschwitz dall’Isola di Rodi con tutta la sua famiglia il 24 luglio 1944.
Cordoval, salendo nella sua cuccetta mette un piede sulla cuccetta inferiore. Si sente apostrofare in italiano: “attento alla testa”. È la voce di Mario Finzi, colpito da dissenteria e reduce da una tubercolosi.
ll medico di quel settore è un ex detenuto, lui stesso ammalato che morirà di lì a poche settimane. Affida a Eliakim l’”Italiano” e un paio di altri moribondi. Malgrado le intense cure praticate da Eliakim che, peraltro, non è mai stato infermiere, Finzi risponde con grande fatica e con un fil di voce alle sue sollecitazioni. Fa però in tempo ad affidargli una missione: andare a Bologna, finita la guerra, e portare ai suoi genitori il suo ultimo saluto.
Senza forze, uscendo dal suo silenzio, una mattina dichiara “e dire che avrei diventare il più grande pianista d’Italia”. Giovedì 22 febbraio mentre Eliakim passeggia fuori dalla baracca, è chiamato da lontano da un altro convalescente: “Corri. Corri. Il tuo amico italiano sta male”. Mario, supino, guarda nel vuoto e emette profondi respiri, penosamente radi. Il suo polso è quasi impercettibile. Eliakim gli prende la mano e ha una debole stretta di risposta. “Dammi la benedizione Eliakim” sussurra Mario “e poi chiudimi gli occhi”. Eliakim, in piedi presso Mario, recita lo “Shemà”, la preghiera fondamentale della religione ebraica. Quando tutto è finito, scrive su un foglietto, come prescrive il regolamento, nome, cognome, paternità, età, patria di Mario e glielo lega al polso con uno spago.
Finita la guerra, Cordoval si presenta a Bologna ai genitori Finzi per raccontare loro la fine del loro figlio, ma essi, addolorati e convinti che Mario è vivo e tornerà, non gli vogliono credere e lo mandano via.
Negli anni successivi, è Renato Peri, ammirato dalla personalità e dalla genialità di Mario Finzi, a farne resuscitare la figura. Con un’appassionata ricerca fatta di colloqui con la signora Ebe Finzi, di raccolta di documenti e testimonianze, pubblica nel 1995 l’opera Mario Finzi o del buon impiego della propria vita.